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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 30 maggio 2013, 22:18 
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FIAT Dino


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La Dino Fiat nacque da un accordo tra la Fiat e la Ferrari, nato dall'esigenza della Casa di Maranello di costruire rapidamente un numero sufficiente di motori Dino (così chiamati perché derivati da un progetto del 1956 dello scomparso figlio di Enzo Ferrari, Alfredo, detto Dino) per ottenere l'omologazione in Formula 2 della Ferrari Dino 166 F2.

Così, accanto alle più costose Dino 206 GT, venne deliberata la produzione di più abbordabili (anche se sempre costose) versioni a marchio Fiat. In realtà, la condivisione tecnica tra le "Dino" della Ferrari e quelle Fiat era limitata al motore V6.

Le Dino 206 GT non venivano commercializzate con il marchio Ferrari, bensì con il marchio Dino, senza scritta Ferrari né sui motori né sui cofani e senza il cavallino rampante, che venivano riservate alle Ferrari 12 cilindri.


La versione spyderL'impostazione tecnica era totalmente diversa e, sulle Fiat, piuttosto classica: motore anteriore, trazione posteriore, avantreno a ruote indipendenti con triangoli sovrapposti, retrotreno a ponte rigido, cambio manuale a 5 marce e freni a disco (con servofreno) su tutte le ruote. La prima "Dino" della Fiat ad essere presentata fu, nella primavera del 1966, la Spider, una due posti secchi disegnata da Pininfarina e non priva di similitudini estetiche coi modelli Ferrari (e non era un caso, visto che derivava da alcuni bozzetti che lo stilista aveva presentato proprio alla Casa di Maranello). Oltre che del design Pininfarina si occupò anche della costruzione del modello presso i suoi stabilimenti.

L'esuberante e scorbutico motore V6 di 1987 cm³, tutto in alluminio e dotato di distribuzione a 4 alberi a camme in testa (2 per bancata), metteva in crisi il retrotreno. L'abbondante potenza (160 cv a 7200 giri/minuto) erogata in modo poco lineare, il passo corto (2256 mm) e l'arcaica geometria della sospensione posteriore, rendevano la Dino una vettura molto nervosa. Inoltre il basamento in alluminio del V6 soffriva i repentini sbalzi di temperatura, che tendevano a deformare le canne dei cilindri.

Al Salone dell'automobile di Torino del 1967 venne presentata la Dino Coupé, con carrozzeria disegnata da Bertone. Dotata della stessa meccanica della "Spider" (salvo il passo allungato a 2550 mm), la Coupé aveva un'impostazione più elegante che sportiva (le dimensioni dell'imponente coupé fastback, con abitabilità per 4 persone, erano importanti: 4514mm di lunghezza e 1709 di larghezza). Anche in questo caso, come in quello della spyder, anche la produzione venne affidata al designer stesso che ne produsse più di 6.000 esemplari nei cinque anni di vita del modello. Il comportamento stradale era meno reattivo di quello della spyder, soprattutto per il passo più lungo, la minor compattezza della carrozzeria (la spyder era lunga 4107 mm) e la massa maggiore (1280 kg contro i 1150).

Fonte Wikipedia

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 31 maggio 2013, 15:37 
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@gifa la fiat dino l'avevo già postata io.....

dbonaciti ha scritto:
....se non sbaglio la prima (o una delle primissime) auto con i paraurti in plastica....

sì è stata una delle prime auto con i paraurti in plastica integrati....

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uscita di fabbrica venerdì 26 aprile 2013


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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 31 maggio 2013, 17:22 
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ALFA ROMEO ALFA 6

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La progettazione dell'Alfa 6 (codice di progetto "119") fu avviata all'inizio degli anni settanta e l'entrata in produzione era prevista per la fine del 1973, poiché la Casa di Arese, dopo l'uscita di scena (nel 1969) dalla poco fortunata 2600, voleva rientrare nel settore delle grandi berline a sei cilindri.
Il "progetto 119" doveva infatti portare al debutto un nuovo motore V6 da 2,5 litri tutto in alluminio, ma la crisi petrolifera seguita alla guerra del Kippur (novembre 1973) sconsigliò i vertici della Casa, allora di proprietà dell'IRI, dal mettere in produzione un'autovettura che percorreva 7 Km con un litro di benzina.
A quel punto, però, il nuovo modello dovette scontare il ritardo con cui il progetto, impostato e ormai definito in quasi tutti i particolari già da un lustro, venne portato a termine. Sostanzialmente contemporaneo al "progetto 116" (quello che portò all'Alfetta del 1972), il "progetto 119" ne riprendeva infatti molti concetti, sia tecnici che estetici.
Le linee squadrate e la somiglianza stilistica con l'Alfetta furono gli aspetti che più evidenziavano l'anzianità del progetto, ma fecero sollevare critiche anche altre caratteristiche. L'impostazione generale del corpo vettura risentì di un certo squilibrio nei rapporti dimensionali, soprattutto se messi a confronto con quelli dell'Alfetta: a fronte di un aumento del passo di 9 cm, la lunghezza era cresciuta di quasi mezzo metro, che si rifletteva in uno sbalzo posteriore assai pronunciato; peraltro la larghezza era più ampia di soli pochi centimetri e anche questo faceva sì che l'abitabilità interna non fosse al livello della concorrenza. Tra i particolari estetici, i gruppi ottici posteriori apparivano molto grandi, i paraurti (in metallo con cantonali in gomma) massicci e la presa d'aria sporgente sul montante posteriore veniva giudicata poco elegante.
La meccanica, sempre a motore anteriore longitudinale e trazione posteriore, si distingueva invece per l'assenza dello schema transaxle caratteristico dell'Alfetta; le sospensioni presentavano un complesso ponte posteriore De Dion e, all'avantreno, quadrilateri deformabili con elementi elastici a barra di torsione; l'impianto frenante era costituito da quattro freni a disco di cui quelli posteriori entrobordo.
Il punto forte della nuova ammiraglia di Arese era considerato il motore V6 da 2.492 cm³ alimentato da sei carburatori monocorpo (la potenza massima era di 158 CV), abbinato ad un cambio manuale a cinque rapporti montato in blocco col motore. A richiesta era disponibile un cambio automatico ZF a tre rapporti.
Per quanto riguarda l'interno, le finiture venivano giudicate discrete e superiori alla media Alfa Romeo dell'epoca.
La prova della rivista specializzata Quattroruote mise in luce le buone caratteristiche del motore, il comportamento stradale valido, ma anche i consumi elevati e la linea superata.
L'Alfa Romeo tentò di promuovere la grande robustezza della scocca ma, per colmo di sfortuna, nel 1981 l'attore Gino Bramieri (fra i primi acquirenti del modello) distrusse la sua Alfa 6 automatica in un drammatico incidente nel quale perse la vita l'attrice Liana Trouche. Va detto, però, che l'attrice morì perché fu sbalzata fuori dall'abitacolo in quanto non aveva allacciato la cintura di sicurezza, malgrado la vettura ne fosse provvista; l'attore, comunque, attribuì l'incidente al malfunzionamento del cambio automatico.
Della prima serie, prodotta fino alla fine del 1982, sono stati costruiti circa 6.000 esemplari.
Nel 1983, nel tentativo di risollevare le sorti commerciali del modello, l'Alfa 6 venne sottoposta a un restyling.
Non vennero toccate le lamiere e le modifiche si concentrarono sull'estetica e sugli interni.
All'esterno cambiarono i fari (due trapezoidali in luogo dei quattro circolari, con indicatori di direzione bianchi anziché arancioni), la mascherina anteriore, i paraurti (ora totalmente in plastica e privi di rostri, fatto che fece scendere la lunghezza del modello a 4,68 m) e comparvero nuovi profili laterali paracolpi e inediti spoiler aerodinamici sotto i paracolpi. L'assetto divenne più basso, rendendo la vettura meno massiccia.
All'interno vennero ridisegnati i sedili ed i pannelli porta, mentre la plancia venne solo ritoccata.
Dal punto di vista tecnico si segnalava l'adozione dell'iniezione elettronica che donava al V6, sempre di 2,5 litri, maggior dolcezza d'erogazione e maggior sobrietà nei consumi. La potenza rimase stabile a 158 cavalli.
Sul mercato interno, nel tentativo di rendere più appetibile fiscalmente l'auto, la 2.5i, disponibile solo nell'allestimento ricco Quadrifoglio Oro (completo anche di aria condizionata e sedili a regolazione elettrica) venne affiancata dalla 2.0 V6 (equipaggiata col V6 a carburatori di cilindrata ridotta a 1.996 cm³ per 135 cavalli) e 2.5 Turbodiesel 5 (spinta da un cinque cilindri di origine VM Motori di 2.494 cm³ da 105 cavalli). Questi due modelli furono penalizzati nelle prestazioni da una massa inusitata per l'epoca (la 2.0 V6 pesava 1.470 kg e la Turbodiesel 5 addirittura 1.580 kg).
L'Alfa 6 restò sul mercato per altri quattro anni, con un impatto sul mercato sempre più trascurabile, ed uscì di listino nel 1987, sostanzialmente rimpiazzata dalla 164, che contemporaneamente sostituì anche la più piccola 90.
Anche della seconda serie erano stati prodotti circa 6.000 esemplari. Le ultime vetture prodotte, giacenti invendute nel deposito di Arese, furono esportate due anni più tardi in Polonia e in altri paesi dell'est europeo.

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Marco - DS3 1.6 THP Sport Chic

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 31 maggio 2013, 19:19 
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quanto era brutto quel volante?????

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 1 giugno 2013, 6:24 
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XMarC ha scritto:
@gifa la fiat dino l'avevo già postata io.....

dbonaciti ha scritto:
....se non sbaglio la prima (o una delle primissime) auto con i paraurti in plastica....

sì è stata una delle prime auto con i paraurti in plastica integrati....

:scusa: : Oops :

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 1 giugno 2013, 14:12 
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dbonaciti ha scritto:
quanto era brutto quel volante?????

in effetti è molto meglio il classico volante in legno Alfa Romeo.....

@gifa tranquillo a volte nemmeno io mi ricordo quelle che sono già state postate.... :ya:

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Marco - DS3 1.6 THP Sport Chic

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 1 giugno 2013, 17:08 
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la fiat uno rialzata..... :haha:
RAYTON FISSORE MAGNUM

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La Magnum venne presentata al Salone dell'automobile di Torino nel 1985, disegnata da Tom Tjaarda (ideatore tra l'altro anche della Fiat 124 Spider e della De Tomaso Pantera) era un veicolo basato sul telaio accorciato e ribassato dell'Iveco 4x4 WM40-10 con il quale condivideva anche gran parte della meccanica (differenziali, freni, sospensioni). La scocca era costituita da una ossatura a tubi quadri a cui erano imbullonati i pannelli della carrozzeria, con un metodo brevettato dalla Rayton Fissore e denominato “univis”. Questa struttura, apportava ulteriore rigidità, al già robusto sotto-telaio a longheroni e traverse. Quasi tutte le scocche della Magnum 4x4 vennero prodotte dalla Goldencar di Caramagna, per poi essere allestite e completate allo stabilimento della Rayton Fissore di Cherasco. Ovviamente, come per quasi tutte le automobili costruite in serie limitate, alcuni particolari della componentistica, come la fanaleria ad esempio, provenivano da veicoli di produzione di massa.
Ricevette un'accoglienza relativamente "fredda" dal mercato automobilistico italiano, probabilmente perché era un progetto troppo avanzato rispetto ai tempi (basti pensare al boom odierno di veicoli di questo tipo, Hummer in primis) e molto probabilmente anche per le dimensioni stesse della ditta (circa 40 persone) che inoltre non ha mai avuto la possibilità di avere una rete di vendita e assistenza capillare. In ogni caso, un rispettabile numero di esemplari vennero acquistati in Italia e all'estero. Furono prodotti circa 6000 Magnum in 18 anni comprese le versioni Americane (circa 1200), queste ultime aggiornate e assemblate dalla Pininfarina (negli anni 1988/1989/1990) e successivamente fornite direttamente dalla Rayton Fissore oramai divenuta Magnum industriale (1998/2002). Approssimativamente 1500 Magnum nelle versioni turbodiesel VM vennero venduti alle forze dell'ordine (Polizia, Guardia di finanza, Guardia forestale etc.), alcune nelle versioni blindate livello 3-4. Il resto delle versioni con le motorizzazioni turbodiesel Sofim, turbodiesel VM Motori, Fiat/Lancia "Volumex" e il raro motore V6 Alfa Romeo (Busso) (circa 120 esemplari) vennero commercializzate per lo più in Italia e Francia.
In Italia e presumibilmente nel resto d'Europa la commercializzazione terminò ufficialmente nel 1993 ma alcune versioni vennero prodotte su ordinazione sino al 1998, al contrario in America, dove il veicolo è stato molto apprezzato, venne continuamente affinato e venduto fino al 2003 con il marchio Laforza. Le versioni destinate agli USA montavano motori di grossa cilindrata provenienti da supersportive quale il 5.0 V8 della Ford Mustang GT, e il 6.0 V8 Vortec usato da vari modelli General Motors.
Le prime versioni Americane del magnum avrebbero dovuto utilizzare il V6 Alfa Romeo ma dopo l'acquisto dell'Alfa da parte della Fiat e per motivi di reperibilità dei ricambi si optò per il 5.0 EFI V8 Ford accoppiato ad una trasmissione automatica AOD (automatic over drive) con 4 marce. Il riduttore ripartitore era un New Process 229s utilizzato anche da svariate Jeep dell'epoca e alcuni modelli Ford, pick-up e fuoristrada (Bronco, F150, F250). Le riviste specializzate dell'epoca ("Road & Track" e "Car and Driver", per citarne alcune) esprimono tutte critiche molto positive specialmente riguardo alla facilità di guida,capacità fuoristradistiche,tenuta di strada, solidità e spazio interno.
Alcune delle ultime versioni della Laforza, vengono costruite con motori GM di 6000 di cilindrata, aspirate oppure sovralimentate con compressore Eaton con potenze da 325 a 455cv, tra cui, alcuni prototipi ristilizzati e migliorati nella telaistica che avrebbero dovuto entrare in produzione nel 2003-2004, ma che non ebbero seguito per motivi finanziari della "Laforza automobiles" che purtroppo chiuse definitivamente nel 2003.
Bisogna sicuramente notare, come l'originale design del Magnum sia stato innovativo e molto futuristico. Alcuni esempi evidenti, che sono stati successivamente adottati e copiati da quasi tutti i costruttori di veicoli 4x4 e successivamente SUV, sono:

il profilo del tetto senza gocciolatoi,
i paraurti in compositi (versione italiana) e PVC (versione Americana) verniciati e inglobati nella linea del disegno della vettura,
vetrature ampie,
linee arrotondate,
interni lussuosi di pelle (compresi pannelli porte e plancia),
finiture in radica,
e per finire il classico powerdome sul cofano.

Accessori come interni in pelle, aria condizionata, vetri elettrici, impianto stereo a scomparsa, volante regolabile e lunotto termico facevano parte della dotazione di serie. Cosa non comune per il lontano 1985, dove la maggior parte della concorrenza, come Range Rover, Toyota Land Cruiser, Mitsubishi Pajero e Nissan Patrol a passo lungo avevano rigorosamente come accessori a pagamento. Senza contare, che cruscotti, plance e pannelli porte, erano comunque di comune plastica stampata. Anche altri SUV moderni hanno adottato alcuni particolari di design innovativi del Magnum come la Range Rover seconda serie del 1994 , l'Isuzu Trooper del 1999, ma soprattutto il concetto di veicolo multiuso di lusso ripreso (più di un decennio dopo) ad esempio dalla Mercedes-Benz con la sua Classe M, la BMW con la X5, la Volkswagen/Porsche con le rispettive Touareg e Cayenne.
Un veicolo il Rayton Fissore Magnum 4x4 molto interessante dunque, che ha sicuramente lanciato una visione nuova di trasporto multi uso, ma forse troppo in anticipo sui tempi e sulle mode.

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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 3 giugno 2013, 15:11 
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DE TOMASO MANGUSTA

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Nel 1965 Alejandro de Tomaso aveva riposto molte speranze nel progetto della De Tomaso P70, una vettura che avrebbe potuto segnare la svolta per la piccola Casa modenese, che fino ad allora aveva prodotto solo poche vetture da competizione e una cinquantina di coupé Vallelunga con motore Ford da un centinaio di cavalli, ed era desiderosa di fare un salto di qualità.
Il pilota e costruttore argentino, che aveva realizzato insieme alla Ghia e presentato al pubblico un prototipo (dapprima statico e in seguito marciante) partendo dai disegni del progettista statunitense Pete Brock, impiegato presso il team del pilota e preparatore americano Carroll Shelby, sperava che una volta realizzata la vettura e dimostratone il valore tecnico, essa venisse acquistata dal team americano per sostituire le loro Lang Cooper a telaio tubolare (una Cooper Monaco modificata e spinta da un motore Ford da 4,7 litri che il team impegnava nelle gare nordamericane), ormai al limite dello sviluppo.
Ma proprio nel 1965, Shelby venne coinvolto dalla Ford nel programma della Ford GT40, che fino ad allora aveva dato risultati deludenti. Il preparatore si dedicò completamente a questo nuovo incarico, mettendo da parte le sue vetture e i relativi progetti di sviluppo, cosicché Alejandro De Tomaso si trovò senza il principale destinatario della sua nuova Sport e fu costretto a modificare i suoi piani: decise quindi di convertirsi alle auto sportive stradali per confrontarsi direttamente con Ferrari e Lamborghini, marchi che affondavano le proprie radici nel medesimo territorio geografico dove era nata a cresciuta la sua piccola azienda e a cui l'argentino voleva sottrarre quote di mercato soprattutto nei ricchi Stati Uniti d'America.
Per farlo partì proprio dall'esperienza maturata col "progetto P70", a sua volta elaborato sui concetti tecnici dalla Vallelunga e dalle sue derivate da competizione, che non andò perduta e fu riversata nella Mangusta, il cui nome fu scelto dal sanguigno argentino come rivalsa nei confronti di Carroll Shelby, in quanto la mangusta è l'unico mammifero in grado di combattere ad armi pari con il cobra, animale simbolo delle vetture del preparatore statunitense.
Nelle intenzioni della casa modenese, il punto di forza e la principale caratteristica della Mangusta era il telaio monotrave in alluminio, ispirato a quello della Vallelunga e in pratica lo stesso della P70/Sport 5000, che prevedeva il motore posteriore centrale come elemento strutturale, come nelle auto da competizione degli anni settanta. A far da corollario al monotrave vi erano sospensioni indipendenti sulle quattro ruote, impianto frenante a quattro dischi a circuito sdoppiato e ruote in magnesio fornite da Campagnolo nelle misure 7x15" anteriori e 8x15" posteriori. C'è da dire, inoltre, che una soluzione telaistica simile al monotrave della Mangusta era adottata dalla Lotus, ma la casa inglese non prevedeva il motore come elemento stressato, affidando a diramazioni del telaio il compito di reggere le sospensioni posteriori. Il telaio modenese, accoppiato ad un pesante e potente motore Ford e rivestito con una leggera carrozzeria in acciaio con cofani e portiere in lega leggera, esacerbò i problemi di rigidezza già apparsi sulla Vallelunga, fece sì che la distribuzione dei pesi della vettura fosse tutt'altro che ideale, con uno squilibratissimo 32% all'anteriore e 68% al posteriore, e rese la dinamica di guida della Mangusta incerta e imprevedibile all'approssimarsi del limite di aderenza e non all'altezza della migliore concorrenza, anche se il rapporto peso/potenza le permetteva di rivaleggiare con la contemporanea Lamborghini Miura.
Il motore, accoppiato ad un cambio a 5 rapporti fornito dalla ZF alquanto duro negli innesti, era l'otto cilindri a V Ford 289 da 4,7 litri che veniva elaborato dalla De Tomaso fino a raggiungere i 306 CV, ma in seguito fu montato sugli esemplari destinati al mercato statunitense il molto meno potente Ford 302, sempre otto cilindri a V ma da 5 litri e soli 220 CV, che però permetteva alla vettura di rispettare i sempre più stringenti limiti antinquinamento emanati in quegli anni dal governo federale degli U.S.A.
La carrozzeria fu disegnata da Giorgetto Giugiaro, all'epoca disegnatore capo presso la carrozzeria Ghia di Torino, adeguando al telaio modenese un suo precedente progetto rifiutato dalla Iso Rivolta, che però aveva entusiasmato il nuovo committente. Il risultato fu una linea bassissima (solo 1100 mm di altezza) che inficiava l'abitabilità, ma che era il giusto compromesso tra eleganza ed aggressività ed era caratterizzata da un enorme parabrezza (che imponeva l'acquisto del condizionatore d'aria per alleviare l'"effetto serra" d'estate) e dal cofano motore diviso in due parti con apertura ad ali di gabbiano. A tale ricercatezza esteriore si contrapponeva un interno particolarmente scarno, in linea con l'idea di una vettura da corsa adeguata alla circolazione stradale propugnata dal costruttore. Da notare l'espediente tecnico/stilistico adottato per la fanaleria anteriore della versione per il mercato statunitense: i quattro piccoli fari tondi accoppiati della versione europea non rispettavano il limite minimo di altezza imposto dal ministero dei trasporti americano, perciò Giugiaro dotò le vetture ivi destinate di un singolo faro tondo di maggiori dimensioni e parzialmente retrattile (ancorché visibile in posizione di riposo), così che una volta esteso esso raggiungeva l'altezza minima richiesta.

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Roll Royce Phantom III


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La Phantom III è stata un’autovettura prodotta dalla Rolls-Royce dal 1936 al 1939. Sostituì la Phantom II. La vettura montava l’unico motore V12 costruito dalla Rolls-Royce fino all’introduzione della Silver Seraph nel 1998. Dei 727 esemplari prodotti, molti sopravvissero nei decenni seguenti, e parecchi sono giunti fino ad oggi. Fu l’ultima vettura fabbricata dalla Rolls-Royce prima della sospensione della produzione dovuta alla seconda guerra mondiale.

Il motore era d’alluminio con alesaggio di 82,5 mm, corsa di 114,3 mm e cilindrata di 7338 cc. Aveva valvole in testa con un solo albero a camme posto nella “gola” tra le due bancate di cilindri. I primi esemplari montavano punterie idrauliche, sostituite nel 1938 da punterie solide regolabili. Il modello montava alcune particolarità tecniche che la differenziavano dalla maggior parte dei veicoli circolanti: aveva due candele per cilindro, due sistemi di distribuzione, due bobine e due pompe d’alimentazione.

Le ruote a raggi erano di serie, ma molti esemplari montavano ruote a disco. L'auto disponeva di un crick azionabile dall'interno e di un sistema di lubrificazione di quelle parti del telaio che ne hanno tipicamente bisogno, azionabile mediante una leva nel posto guida. Un’altra caratteristica della vettura erano le sospensioni indipendenti sulle ruote anteriori. Questa soluzione con molle elicoidali sull’avantreno era integrato da un retrotreno a balestre semiellittiche.

Il cambio era manuale a quattro velocità con sincronizzazione per la seconda, terza e quarta marcia ed era collegato al motore da una frizione monodisco. La marcia di riposo fu introdotta nel 1938. L’impianto frenante era di tipo servoassistito sulle quattro ruote su licenza Hispano-Suiza. Il freno a mano era indipendente.

Il modello montava un copriradiatore in acciaio Staybrite.

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Metto questa scattata proprio ieri Mercedes 190, ma non so se sia il 2.3 o il 2.5

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XMarC ha scritto:
di solito le versioni da Rally sono 2.3...

Si si era la 2.3

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mercedes 190 evo



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il modello 2.3-16, esso montava una variante sportiva del motore da 2,3 litri M102, dotato (come si evince alla denominazione) di una testata a 4 valvole per cilindro ed in grado di erogare fino a 185 CV di potenza massima, spingendo la vettura a 230 Km/h di velocità massima. Oltre a ciò, la 190 E 2.3-16 aveva una pesante caratterizzazione sportiva sia interna (configurazione a quattro posti con sedili sportivi molto avvolgenti) che esterna (paraurti in tinta con ampi spoiler, bandelle laterali, cerchi in lega con pneumatici maggiorati, alettone posteriore, passaruota allargati). Tale versione, però, fu solo presentata alla fine del 1983, mentre la produzione vera e propria partì solo un anno dopo, nel 1984.
Nel settembre del 1988 vi fu l'avvento della seconda serie: un leggero restyling interessò sia l'esterno (nuovi paraurti con colorazione in tinta, inediti fascioni laterali in plastica colorata come la carrozzeria, mascherina-radiatore modificata) che l'interno (diversa consolle centrale e nuovi rivestimenti). La gamma dei motori rimase invariata, ma tutte le 190 ora offrivano cambio a 5 marce e ABS di serie. Le versioni a benzina oltre 2 litri adottavano di serie la marmitta catalitica. Sempre nel 1988, la 2.3-16 vide l'incremento della cilindrata da 2,3 a 2,5 litri (2498 cm³ per l'esattezza), divenendo 190 E 2.5-16 . Questo nuovo modello erogava una potenza massima di 204 CV.
Nel 1989 al Salone di Ginevra debuttò anche la 190 E 2.5-16 Evolution, dotata di un nuovo motore da 2463 cm³, quindi differente da quello montato sulla 2.5-16. Anche la carrozzeria era modificata, con una grande ala posteriore e parafanghi allargati, che caratterizzavano fortemente questa versione sportiva della berlina Mercedes-Benz.

190 E 2.3-16
Questo modello è stato il primo ad essere introdotto dalla Casa della stella a tre punte. Fu presentato al grande pubblico al Salone di Francoforte del 1983, in autunno, ma già qualche mese prima, in estate, era stato presentato in anteprima alla stampa sul circuito di Nardò (LE), dove tre esemplari di pre-serie stabilirono significativi record di velocità, viaggiando ad una media di 247,939 Km/h. Il maggior motivo di interesse della 190 E 2.3-16 è costituito dal motore, il cui monoblocco deriva dal 2 litri di normale produzione; con cilindri rialesati e testata rielaborata dalla britannica Cosworth, che includeva tra l'altro un doppio asse a camme e quattro valvole per cilindro, la potenza massima raggiungeva ben 185 CV a 6200 giri/min, valore notevole per un motore nato nel 1983. La velocità massima della vettura di serie, lanciata solo un anno dopo la presentazione a Francoforte, venne parzialmente ridimensionata, toccando i 230 Km/h, con accelerazione da 0 a 100 Km/h in soli 7,5 secondi. Nell'edizione del 1988 del DTM, la vettura colse un secondo posto con il pilota Roland Asch e l'anno successivo giunse quarta con Kurt Thiim. La 190 E 2.3-16 venne impiegata anche per l'inaugurazione del nuovo circuito del Nürburgring, avvenuta nel 1984. Qui diversi esemplari di questo modello si diedero battaglia in una corsa che vide trionfare un giovanissimo Ayrton Senna, da pochi mesi attivo in Formula 1.
Un modello della 190 E 2.3-16 venne iscritto dalla AMG alla prima edizione del WTCC del 1987. Pilotata dal tedesco Peter Oberdorfer e dall'austriaco Franz Klammer, durante la stagione ottengono come miglior piazzamento il 4° posto al Circuito di Donington Park.

190 E 2.5-16
Questa versione rappresenta l'evoluzione del precedente modello, con iniezione meccanico-elettronica KE-Jetronic e sonda lambda. Qui il motore è stato portato da 2299 a 2498 cm³, con una potenza massima cresciuta rispettivamente a 194 CV (con catalizzatore) e 204 CV (senza catalizzatore) a 6750 giri/min. Per quest'ultima versione la velocità massima sale a 235 Km/h e lo 0–100 Km/h viene percorso in 7,5 s.

190 E 2.5-16 Evo
Denominata Evo (o Evoluzione in Italia) ed introdotta nel 1988, questa vettura montava un nuovo motore da 2,5 litri, della cilindrata di 2463 cm³. La nuova unità da 2,5 litri era stata concepita per avere maggiori possibilità di elaborazioni sportive. La potenza massima della versione stradale rimaneva comunque invariata a 204 CV, mentre miglioravano leggermente le prestazioni. Nella versione non catalizzata, la velocità massima raggiungeva i 235 Km/h. Esteticamente la Evo (come pure la successiva Evo II) si distingueva nettamente dal resto della produzione per le appendici aerodinamiche e i passaruota allargati, quasi mai visti su vetture del genere; spiccava su tutto il grosso alettone posteriore. Per ottenere l'omologazione nel Gruppo A sono necessari almeno 500 esemplari: questo modello venne quindi prodotto in 502 esemplari. Il DTM del 1990 terminò con la Evo del pilota Kurt Thiim piazzata al terzo posto e quella di Klaus Ludwig al quinto.

190 E 2.5-16 Evo II
Questo modello, anch'esso prodotto in 502 esemplari, venne introdotto nel 1989 e rappresenta di fatto un'evoluzione della precedente Evo nata l'anno prima. Il motore da 2,5 litri aspirato venne sottoposto ad ulteriori rivisitazioni così da raggiungere la potenza massima di 235 CV a 7200 giri/min nella versione stradale. La velocità massima raggiunta era stavolta di 250 Km/h, che alla fine degli anni ottanta erano un valore di spicco per una vettura di tale fascia di mercato. Migliorate anche le doti di accelerazione: lo scatto da 0 a 100 Km/h veniva stavolta coperto in 7,1 secondi. Questa vettura venne impiegata al DTM del 1991, dove Klaus Ludwig conquistò il secondo posto. Il successo completo arrivò l'anno successivo, quando le Evo II dei piloti Ludwig, Thiim e Schneider si classificarono rispettivamente al primo, secondo e terzo posto del DTM. In più, al quinto posto giunse Rosberg, sempre su Evo II. Nel 1993, Roland Asch giunse secondo, ma oramai l'epoca delle 190 da competizione era alla fine.


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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 4 giugno 2013, 12:26 
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Il mio ex datore di lavoro aveva la evoe 2.ma ai tempi ero un sedicenne e non potevo guidarla.....
Prima che la vendesse però un giretto me lo fece fare ;)
Stupenda...... :ya:


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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 4 giugno 2013, 15:16 
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FERRARI 250 GTO

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La Ferrari 250 GTO è sia un'automobile stradale sia una da corsa prodotta dalla Ferrari agli inizi degli anni sessanta. Viene considerata la Ferrari per eccellenza ed è tuttora una delle automobili più conosciute di tutti i tempi. La Ferrari 250 GTO verde chiaro di Stirling Moss è stata venduta nel giugno 2012 per 35 milioni di dollari.
Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.
Nel 2004 la rivista automobilistica statunitense Sports Car International ha eletto la 250 GTO all'ottavo posto delle "migliori vetture sportive degli anni '60" e per la rivista anch'essa statunitense Motor Trend Classic la 250 GTO è la "Migliore Ferrari di tutti i tempi".
La 250 GTO era stata disegnata per partecipare a gare automobilistiche. Era una evoluzione della 250 GT "Short Wheel Base" che consisteva nel montare il motore V12 da 3 litri della 250 Testa Rossa sul pianale della citata 250 GT SWB. Dopo che l'ingegnere capo di questo progetto, Giotto Bizzarrini, fu licenziato insieme ad altri ingegneri della Ferrari in seguito ad una lite con Enzo Ferrari, il progetto fu dato in mano al nuovo ingegnere Mauro Forghieri ed al progettista Sergio Scaglietti. La carrozzeria ancora oggi molto apprezzata è frutto della collaborazione Bizzarrini-Scaglietti, e non, come di solito, frutto di una casa o di un designer specifico.Durante l'infuriare della guerra Cobra-Ferrari, per mantenere la competitività del modello nelle gare dell'International Championship for GT Manufacturers la Ferrari mise in pista per la stagione 1964 un'evoluzione del modello denominata 250 GTO II serie o 250 GTO/64, caratterizzata da una differente carrozzeria e vari affinamenti. Tre vetture furono costruite secondo questo standard, mentre altre quattro vetture della I serie furono dotate della nuova carrozzeria.
Le regole della FIA per la stagione 1962 prevedevano la costruzione di cento esemplari di uno specifico modello per concedere l'omologazione per partecipare alle competizioni per vetture Gran Turismo nel Gruppo 3.
Furono prodotti solamente 36 esemplari con motore di 3000 cm³ e 3 con un motore di 4000 cm³ (a cui spesso ci si riferisce col nome improprio di 330 GTO, per via della diversa cilindrata unitaria) per un totale di 39, e questo permise alla Ferrari di essere molto selettiva nei confronti degli acquirenti potenziali. Ferrari eluse le regole mediante una numerazione non sequenziale dei telai prodotti.
Degli esemplari prodotti, solo due uscirono da Maranello in tinta verde e, ad oggi, solo uno è ancora di questo colore, il verde BP tipico del marchio petrolifero inglese, mentre l'altro fu ridipinto rosso classico. Un'altra peculiarità del modello verde è la guida a destra.
Uno degli amministratori della SEFAC (l'allora nome della Ferrari), Michael-Paul Cavallier, se ne fece costruire una con motore 4000 e 5 cm più lunga (poiché era di statura sopra la media). È l'unica 250 GTO a non aver mai preso parte ad una gara agonistica.

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MessaggioInviato: 5 giugno 2013, 8:21 
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shelby gt500 '69



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La Shelby Mustang, versione modificata dalla Ford Mustang, è una vettura sportiva prodotta durante gli anni sessanta da Carroll Shelby e dalla sua Shelby-American. Con il succedersi dei modelli della vettura base, anche la Shelby è stata realizzata in differenti serie. Questo progetto è stato voluto dalla Casa e in alcuni casi le Shelby sono state prodotte direttamente all'interno degli stabilimenti Ford. Due sono state le principali versioni realizzate: la GT350 e la GT500.
La prima serie delle Shelby, la GT350, è stata realizzata nel 1965. Unico colore disponibile durante quell'anno era il bianco. Come optional era disponibile un kit di strisce Le Mans blu che, collocate al centro del corpo vettura, andavano dal muso fino alla coda. Erano anche presenti strisce recanti la sigla GT350, che identificava la vettura.
Il motore di questa auto era una versione modificata del Windsor K-code da 4.7 L (289 in3) V8. Le modifiche principali apportate al propulsore erano speciali coprivalvole Cobra, diversa presa d'aria, tre collettori a Y e carburatori Holley. La potenza passava dai 271 hp (202 kW) del motore standard ai 306 hp (228 kW) di questa versione. Sui modelli 1965 il motore era verniciato in nero.
Il modello 1966 differiva dal precedente per la gamma dei colori disponibili e per gli allestimenti. Per quanto riguarda i colori oltre al bianco erano stati introdotti il rosso, il verde, blu, e nero. Le strisce Le Mans, come nel modello precedente, continuarono ad essere disponibili su richiesta. Nella parte posteriore della vettura erano stati montati degli air scoop (prese d'aria) speciali su entrambi i lati. Il sedile posteriore ripiegabile era ora montato di serie. Il motore restava sempre il 4,7 L ma sulle vetture 1966 era verniciato in blu.
Shelby raggiunse un accordo con la ditta di noleggio auto Hertz per la produzione di una linea speciale della GT 350 che venne designata GT350H. Furono 1.000 gli esemplari prodotti. Di questi 800 erano in nero mentre vennero realizzati 50 esemplari per ognuno degli altri colori disponibili (bianco, blu, rosso e verde). Solo le vetture in nero erano dotate delle strisce Le Mans, che su questo modello erano in colore bianco. Sulle altre erano presenti solo le strisce laterali. Queste vetture, che furono poste in vendita dalla Hertz alla fine del periodo di noleggio, sono molto rare e ricercate tanto che alcuni esemplari hanno raggiunto un valore di circa 120.000 dollari.
Nel 1967 venne presentato il nuovo modello di Mustang e su questo nuovo modello venne basata la Shelby modello 1967. L'innovazione principale della gamma fu l'introduzione, a fianco della GT350, della nuova GT500. Questa vettura montava il motore da 7 L (428in3) Big-block V8 FE Police Interceptor.
Per quanto riguarda le modifiche introdotte alle Shelby 1967 queste riguardavano il gruppo luci posteriori che era quello della Mercury Cougar ma senza cromatura, uno spoiler e prese d'aria su entrambe i lati. Inoltre questa fu la prima vettura a montare di serie un roll-bar, una protezione in tubi saldati interna all'abitacolo.
Nel 1968 la produzione delle Shelby venne spostata dall'impianto di Carroll Shelby presso il Los Angeles International Airport allo stabilimento Ford di Iona, Michigan. In questo anno venne prodotta anche la versione GT390, famosa per essere stata utilizzata nel film "Bullit", con Steve McQueen.
Nell'estate del 1969 si concluse l'accordo di Shelby con la Ford. In questo periodo sia la GT350 che la GT500 vennero sottoposte ad un'ampia rivisitazione. Adesso la progettazione e il design della vettura erano curate principalmente dalla Ford mentre Shelby aveva ridotto il suo impegno. La produzione delle Shelby si concluse con il model year 1970 che nei fatti era una rivisitazione del precedente modello 1969.


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 Oggetto del messaggio: Re: AUTO ED AUTO
MessaggioInviato: 5 giugno 2013, 15:13 
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SMART ROADSTER

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Dopo il successo ottenuto dalla piccola City-Coupé già pochi mesi dopo il suo debutto, il colosso della DaimlerChrysler decise che per il marchio della Smart era ora di cominciare ad allargare la gamma dei suoi modelli. Fu così che nell'autunno del 1998 fu avviato un nuovo progetto, siglato W452 e destinato ad un nuovo modello marchiato Smart.
Ma non si voleva creare una gamma banalmente composta da modelli che andassero a fronteggiarne altri già presenti nel mercato. Si volle invece creare qualcosa di diverso, magari non di inedito, ma che da diversi anni era ormai assente o quasi dalla scena automobilistica mondiale. Per questo si pensò ad una roadster di piccola taglia, con corpo vettura sensibilmente inferiore ai quattro metri di lunghezza e peso contenuto. L'idea era quella di ricreare una roadster secondo lo spirito delle biposto inglesi compatte degli anni cinquanta e sessanta, ossia con un piccolo motore ed un corpo vettura leggero in grado di regalare quel piacere di guida autentico che nel corso dei decenni successivi è andato progressivamente scemando a causa dell'aumento di dimensioni dei modelli che si sono via via avvicendati e non ultimo dell'avvento del catalizzatore che ha in piccola parte "tarpato" le ali anche a quei modelli con maggiori velleità sportive. Ora, se per la marmitta catalitica non vi era rimedio ed era assolutamente necessario montarlo, fu anche vero che per gli ingombri non vi erano restrizioni di sorta, per cui la scelta cadde in via defintiva su una roadster compatta.
Stabilito il genere di vettura da costruire, rimase il problema relativo allo styling da applicare alla vettura stessa: si decise che la vettura doveva essere inconfondibilmente una Smart e mostrare quei caratteri stilistici che l'avrebbero accomunata alla meno pretenziosa City-Coupé. Dal punto di vista tecnico si scelse, com'era ovvio, di mantenere la soluzione della cellula di sicurezza "Tridion", anche se interamente riprogettata in funzione del differente corpo vettura.
Il primo prototipo, che esteticamente prefigurava già il modello di serie, fu presentato già l'anno seguente al Salone di Francoforte assieme ad una sportiva diametralmente opposta come la SLR-McLaren. A parte quelche piccolo dettaglio, la vettura era già quella definitiva, ma ovviamente era ancora da mettere a punto e testare su strada; la presentazione in tale occasione fu effettuata principalmente per testare il gradimento del pubblico, come testimoniano anche i soli tre mesi che hanno richiesto la costruzione di tale prototipo.
Una seconda presentazione si ebbe nel 2000 al Salone di Parigi, dove questa volta la piccola sportiva fu svelata in una nuova veste con carrozzeria coupé a due posti secchi. La presentazione al pubblico si ebbe nell'agosto del 2002 a Berlino. Ma non si decise di avviare immediatamente la commercializzazione del modello, che invece entrò nei listini Smart solo a partire dall'11 aprile dell'anno successivo.
Dal punto di vista progettuale, la Roadster non tradisce la fedeltà stilistica a quelle soluzioni tipiche del marchio Smart, il quale fino a quel momento aveva comunque un solo modello in listino, benché declinato in due varianti di carrozzeria. La Roadster sfoggiava soluzioni del tutto particolari, come lo stesso corpo vettura assai compatto anche per una piccola sportiva e configurato in maniera tale da risultare in realtà più una vettura apribile di tipo Targa che non una roadster vera e propria, a causa della presenza fissa e costante del massiccio montante posteriore.
Il frontale, dal disegno assai spiovente, era caratterizzato dai curiosi gruppi ottici tondi e sdoppiati, inseriti in una mascherina in plastica grezza che includeva anche la calandra integrata nello scudo paraurti ed i fendinebbia. Osservando invece la fiancata, balzavano immediatamente all'occhio i ridotti sbalzi anteriore e posteriore, la forte inclinazione all'indietro del parabrezza ed i passaruota assai bombati come si conviene ad una vettura sportiva, e che contenevano i cerchi in lega da 15 pollici (ma a richiesta era possibile avere i cerchi da 16 pollici). Inoltre, la vista laterale tradiva chiaramente la volontà di accostarsi alla City-Coupé, grazie all'utilizzo della cellula "Tridion" a vista, la quale regalava una colorazione bicolore al corpo vettura, a meno che non fosse stato richiesto diversamente da chi la ordinava. Le zone della scocca non in vista erano "vestite" con pannelli carrozzeria in resina termoplastica. Questa cellula incorporava anche il già citato montante posteriore che accomunava la vettura ad una di quelle apribili di tipo Targa tipiche degli anni settanta. Lo stesso montante posteriore incorniciava il lunotto, il quale si affacciava posteriormente sul coperchio tramite il quale si accedeva sia all'angusto vano bagagli sia al vano motore. Altre caratteristiche della zona posteriore erano i gruppi ottici con plastiche trasparenti e due elementi circolari.
Le caratteristiche della Roadster valgono anche per la Roadster-Coupé, che differiva dalla prima solo nella zona posteriore, dove lo sportello del vano motore era sostituito da un vero portellone quasi del tutto trasparente e quindi con funzione di lunotto, con design spezzato sullo stile di quello delle Honda CRX degli anni ottanta. L'abitacolo della Roadster, ma anche quello della Roadster-Coupé, era fatto su misura per due persone, oltretutto non troppo alte di statura, visto che il volante non regolabile avrebbe potuto causare qualche problema di adattamento per le persone di maggior statura. Il design degli strumenti, della plancia e degli stessi sedili, oltre che il vivace abbinamento dei colori e degli inserti in alluminio, erano un'altra caratteristica tipica del marchio Smart. Tra i vari comandi era presente anche quello per l'apertura e chiusura della capote in tela, la quale andava ad alloggiarsi in mezzo alle due barre longitudinali che univano la sommità del parabrezza con il montante posteriore. anche questa caratteristica accomunava la piccola sportiva più ad una Targa che ad una biposto aperta vera e propria. Si era già accennato al ridotto vano bagagli posteriore, ma in realtà il vero scomparto per i bagagli è stato ricavato anteriormente, poiché l'architettura meccanica della vettura non permetterebbe altrimenti. Si trattava anche in questo caso di un vano bagagli non molto capiente, ma adeguato al genere di vettura. In ogni caso era possibile disporre di 82 litri di capacità massima.
La Roadster è fondamentalmente costruita secondo una filosofia che finora era propria soltanto della Lotus: un'auto strutturalmente leggera, con un motore non molto potente ma sufficiente a garantire prestazioni brillanti grazie al favorevole rapporto peso/potenza. L'architettura meccanica era del tipo "tutto dietro", cioè con motore sistemato in posizione posteriore (in questo caso si parla di posizione posteriore-centrale) e trazione sulle ruote posteriori. Il pianale era derivato da quello della City-Coupé, che permetteva tra l'altro di mantenere lo schema tecnico appena descritto. Quanto alla scocca, venne mantenuta la soluzione della cella "Tridion", la quale garantiva un alto livello di rigidità, un requisito fondamentale per una vettura con carrozzeria apribile.
quanto alla meccanica telaistica, la Roadster e la Roadster-Coupé erano caratterizzate da un avantreno a ruote indipendenti con schema MacPherson e barra antirollio, mentre il retrotreno prevedeva invece un'insolita soluzione con ponte De Dion. L'impianto frenante era di tipo misto, vale a dire con dischi (di tipo autoventilante) all'avantreno e tamburi al retrotreno. Questo impianto frenante era corredato dei dispositivi ABS ed ESP.
Il motore proposto all'inizio era il classico tricilindrico M160 montato sulla City-Coupé, e che a proprio a partire dal 2003 è stato oggetto di modifiche che ne avevano innalzato la cilindrata a 698 cm³. Questo motore era sovralimentato mediante turbocompressore corredato di intercooler, grazie ai quali era possibile raggiungere una potenza massima di 82 CV, non molti, ma ampiamente compensati dalla massa ridotta. Quanto al cambio, la Roadster e la Roadster-Coupé montavano il cambio elettroattuato a sei marce che a causa dei suoi tempi morti durante il passaggio da un rapporto ad un altro, impedisce di avere delle prestazioni realmente brillanti. Ciò ha rappresentato un handicap per la piccola sportiva, la quale era peraltro accreditata di un rapporto peso/potenza inferiore ai 10 kg/CV, quindi buono sulla carta.
La produzione fu quindi avviata nell'aprile del 2003 e nelle due configurazioni di carrozzeria previste. Ma già il mese successivo, la gamma si ampliò con l'arrivo di una versione più economica e dotata dello stesso motore, ma depotenziato a 61 CV. Nel marzo del 2004 arrivò invece la versione di punta, denominata Brabus perché rivista dal noto preparatore tedesco da molti anni al servizio del gruppo Daimler (sia esso Daimler-Benz, DaimlerChrysler o la successiva Daimler AG). In tale configurazione, il motore della piccola sportiva raggiungeva una potenza massima di 101 CV, garantendo prestazioni più brillanti. Sempre nel 2004 la gamma si sdoppiò con l'arrivo di due livelli di allestimento, denominati Pulse e Passion.
In realtà, la vettura si dimostrò un flop commerciale a causa dell'elevato prezzo di listino, della scarsa brillantezza nella versione da 82 CV, quella più diffusa, e dell'eccessiva appartenenza ad un settore di nicchia, che relegò i consensi verso la vettura stessa solo ad una ristretta cerchia di appassionati. La sua produzione cessò quindi nel 2005, a seguito degli scarsi risultati commerciali, ma soprattutto a seguito del forte passivo della Casa madre, Smart Gmbh, che per uscire dalla situazione difficile decise di concentrare la produzione sulla sola Fortwo, rinnovata e presentata al Motor Show di Bologna del 2006.
Nel tentativo di solleticare maggiormente l'interesse della potenziale clientela verso la Roadster, furono realizzate anche diverse edizioni speciali a tiratura limitata, come per esempio le varie Pitchblack, Bluestar, Blackstar ed Ultimate. Inoltre vi furono anche le edizioni Bluewave (500 esemplari), Affection, Speedsilver, MTV-Roadster prima edizione (200 esemplari), MTV-Roadster seconda edizione e Collector's Edition. Quest'ultima, limitata a soli 50 esemplari, fu lanciata nel marzo 2006, quando ormai la normale produzione era ormai terminata.

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FORD RS200

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Dopo l'introduzione della nuova Ford Escort nel 1981, la Ford Motorsport pensò allo sviluppo di una vettura a trazione posteriore e turbocompressa per affrontare i rally Gruppo B, dando il via alla Escort RS 1700T. Tuttavia alcuni problemi nello sviluppo portarono la Ford ad abbandonare il progetto nel 1983, perdendo la possibilità di poter entrare nel Gruppo B. Non volendo abbandonare l'idea di una vettura da rally e non volendo perdere inutilmente i costi di produzione della 1700T, si decise di costruire una nuova vettura dotata di trazione integrale e motore centrale, per competere al meglio con le avversarie Peugeot e Audi.
La carrozzeria venne realizzata in plastica e fibra di vetro e disegnata dalla Ghia, mentre venne prodotta dalla Reliant. I progettisti montarono una trasmissione anteriore per bilanciare la distribuzione dei pesi, ma questo richiese che la potenza proveniente dal motore andasse prima sulle ruote anteriori e in seguito su quelle posteriori, dando origine a un complesso schema di trazione. Il telaio venne progettato da Tony Southgate, operante nella Formula Uno, con l'iniziale aiuto di John Wheeler, anch'esso ingegnere F1. Le sospensioni a quadrilatero con doppi ammortizzatori per ogni ruota, diedero alla vettura un'ottima guidabilità e tenuta di strada, grazie anche all'eccellente distribuzione dei pesi. Esteticamente però, la fretta di produrre la vettura fece sì che numerose componenti venissero prese da altre vetture Ford. Per esempio, il parabrezza e le luci posteriori erano uguali a quelle della Ford Sierra.
Il motore era un 1.800 cm³ turbocompresso della Cosworth (BDT) e produceva 258 CV nelle versioni stradali e tra i 350 CV e i 460 CV durante le competizioni. Per le versioni stradali furono anche disponibili dei kit di potenziamento, che portavano la potenza oltre i 300 CV. Anche se l'RS200 aveva un ottimo portamento stradale ed era molto ben bilanciata per essere competitiva, il suo rapporto peso potenza era scarso in confronto alle avversarie e il motore aveva un consistente turbo lag a bassi giri. Il terzo posto ottenuto al Rally di Svezia del 1986 da Kalle Grundel, fu la migliore posizione mai guadagnata dal veicolo nella categoria Gruppo B.
Anche se non fu colpa delle caratteristiche tecniche della vettura, la RS200 fu protagonista di uno dei più terribili incidenti nella storia del WRC. Nel Rally di Portogallo vennero feriti molti spettatori, dei quali ne morirono tre. Un altro spiacevole incidente avvenne sulla tappa del Rally di Hessen in Germania nel 1986, in cui il pilota Marc Surer perse il controllo della vettura schiantandosi contro un albero, che squarciò l'RS200 in due, per poi finire contro un secondo sul quale l'auto esplose. Surer riuscì a salvarsi venendo sbalzato fuori dall'abitacolo, mentre il suo amico e copilota Michel Wyder morì intrappolato nella vettura e avvolto dalle fiamme. L'incidente del Rally di Portogallo fece discutere parecchio e la FIA, la quale al tempo controllava il WRC, abolì il Gruppo B subito dopo la stagione del 1986 (non solo per via dell'incidente causato dalla RS200).
Per il 1987, la Ford aveva pianificato di introdurre un'evoluzione della RS200 con una nuova versione del motore Cosworth BDT, ovvero il BDT-E di 2.137 cm³. Tale motore poteva supportare una cavalleria da 557 CV fino a 826 CV tanto che le versioni più potenti acceleravano da 0 a 100 Km/h in soli 2,2 secondi. Con la seconda versione vennero potenziati anche i freni e le sospensioni. La cancellazione del Gruppo B fece sì che la RS200 E2 diventasse un veicolo da rallycross dall'agosto 1986 fino all'ottobre 1992. Il pilota norvegese Martin Schanche vinse il campionato nel 1991 con una Ford RS200 E2 da 652 CV.
Nel 1998 questa vettura venne anche utilizzata dal pilota svedese Stig Blomqvist (che già l'aveva pilotata nel mondiale rally 1986) nella categoria Unlimited della Pikes Peak International Hillclimb con motore in versione da 850 CV, capace di una accelerazione da 0 a 100 Km/h in 2 secondi; terminò la cronoscalata al 4º posto assoluto.
Secondo una regola FIA, una vettura per partecipare nel Gruppo B doveva esistere almeno in 200 esemplari stradali. Così la Ford realizzò questi 200 veicoli più un'altra ventina da utilizzare nelle competizioni.
Solo 24 vetture delle 200 originali vennero aggiornate alla versione E2. Le intenzioni iniziali erano quelle di rinominare queste 24 vetture con un numero di serie oltre il 200, ma alla fine rimase quello iniziale.
I progetti del corpo vettura della RS200 vennero in seguito comprati dalla Banham Conversions, la quale gli utilizzò per costruire una kitcar basata sulla Austin Maestro chiamata Banham 200. Essendo quindi una modifica estetica di questa vettura, l'intera meccanica non fu minimamente paragonabile a quella della RS200 originale, compresa la posizione del motore (anteriore in questa kitcar).

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Marco - DS3 1.6 THP Sport Chic

uscita di fabbrica venerdì 26 aprile 2013


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